La parola “coffee” entrò nella lingua inglese nel 1582 tramite il “koffie” della lingua olandese, preso a sua volta in prestito dal “kahve” della lingua turca ottomana, derivante dal “qahwah” della lingua araba (قهوة).

La parola araba “qahwah” si riferiva originariamente a un tipo di vino, la cui etimologia viene proposta dalla lessicografia come una derivazione del verbo “qahā” (قها, “mancanza di fame”) in riferimento alla reputazione anoressizzante della bevanda. La parola “qahwah” è talvolta una traccia alternativa del “quwwa” arabo (“potenza, energia”) o di “Kaffa”, il reame medioevale etiopico da dove l’arbusto è stato esportato fino in Arabia. Queste etimologie per “qahwah” sono state in ogni caso tutte variamente contestate.

Il nome “qahwah” non è generalmente utilizzato per la bacca o il prodotto della pianta, che sono noti in arabo come “bunn” e nella lingua oromonica “būn”. Le lingue semitiche avevano la radice “ghh”, “colore scuro”, divenuta una denominazione naturale per la bevanda; secondo questa analisi la forma femminile “qahwah” (che significa anche “colorazione scura, opaco, arido, acerbo”) era probabilmente scelta in parallelo al “khamr” (خمر, “vino”, parola femminile in arabo) e originariamente significava “il buio” (o “nero”).

Primo utilizzo e leggende

Gli antenati etiopi del gruppo etnico degli Oromo furono con buone probabilità i primi ad aver riconosciuto l’effetto energizzante della pianta di caffè la quale cresceva spontanea nei loro territori. Studi di diversità genetica sono stati eseguiti su molte varietà di Coffea arabica, che si sono rivelate scarsamente differenziate ma con la conservazione di una certa eterozigosità residua proveniente dai materiali ancestrali. È pertanto risultata essere strettamente correlata alle specie diploidi di Coffea canephora e Coffea liberica.

Tuttavia non è stata rinvenuta alcuna prova diretta che possa indicare il luogo africano approssimativamente esatto in cui il caffè sia cresciuto per la prima voltà e neppure che tra gli indigeni avrebbe potuto essere riconosciuto e usato come stimolante in un periodo precedente al XVII secolo[1]. Si pensa però che l’impianto del caffè domestico originale sia avvenuto ad Harar la cui popolazione nativa è considerata indigena dell’Etiopia, con l’aggiunta di distinte popolazioni poco oltre i confini del Sudan e in Kenya.

The Coffee Bearer al quartiere ottomano del Cairo. Dipinto di John Frederick Lewis (1857).
Il caffè è stato consumato principalmente nel mondo islamico, là ove è nato; rimase anche direttamente correlato alle pratiche più strettamente religiose, per riuscire cioè a sopportare le lunghe veglie di preghiera.

Ci sono diversi racconti leggendari sull’origine della bevanda; uno di questi comprende la vita del mistico del Sufismo berbero Abu l-Hasan al-Shadhili ; una storia etiopica narra che, osservando una vitalità insolita in alcuni volatili, provò ad assaggiare le bacche che gli uccelli stavano mangiando, sperimentandone la stessa energia.

Altri attribuiscono la scoperta del caffè ad un discepolo della Shadhiliyya chiamato Omar. Secondo l’antica cronaca (conservata nel manoscritto del persiano Abd al-Qadir Maraghi) questi, che era conosciuto per la sua capacità di curare i malati con la sola forza della preghiera, fu esiliato da Mokha in una grotta deserta nei pressi di Ousab[18]; provò a masticare le bacche raccolte da alcuni arbusti situati lì vicino, ma le trovò amare. Allora si mise a tritarle nel tentativo di migliorarne il sapore, ma così divennero dure. Poi provò a bollirle per ammorbidirle, il che produsse un liquido fragrante bruno. Dopo averlo bevuto Omar fu capace di rimanere senza cibo per dei giorni interi. Quando i racconti di questo “farmaco miracoloso” giunsero fino a Mokha ad Omar venne permesso di tornare e in seguito venne fatto santo.

Un altro racconto riguarda un cavaliere etiopico del IX secolo, Kaldi; notando gli effetti energizzanti che subiva il suo gregge dopo aver brucato le bacche di un color rosso brillante di un certo cespuglio, si mise egli stesso a masticarle; l’euforia che ne derivò lo spinse a portare le bacche ad un monaco in un vicino monastero. Questi però non approvò il loro uso e le gettò nel fuoco; subito dopo ne fuoriuscì un intenso profumo, che fece accorrere altri monaci incuriositi. Le bacche arrostite furono rapidamente tratte fuori dalle braci, polverizzate e sciolte in acqua calda: la prima tazzina di caffè al mondo era stata creata. Dal momento però che questa storia non è nota per essere apparsa per iscritto prima del 1671, 800 anni dopo rispetto al tempo in cui viene ambientata, è molto probabile che sia spuria.

Fragile genetica dell'”arabica”

Delle 90 specie di caffè inventate, meno di 10 sono poi state effettivamente coltivate e solo 2 sono sopravvissute fino al XX secolo: la Coffea arabica e la Coffea canephora. La 1° è nata da un antico incidente cromosomico, che ha quadruplicato la propria sequenza di DNA; questa è l’unica varietà autogoma. I suoi fiori si autfecondano, anche se nel 10-20% dei casi si verifica l’allogamia ovvero l’impollinazione grazie ad insetti.

Le altre piante di Coffea non possono invece autofecondarsi, ma scambiano permanentemente i geni col polline, il che le rende più resistenti ai parassiti[20]. Di fronte al brusco aumento dl consumo nel corso del XVIII secolo l'”arabica” si è espansa troppo rapidamente, riducendo la sua base genetica a quasi 0; solamente alcune piante delle 2 varietà “Typica” e “Bourbon pointu” risultarono essere esportate e duplicate in tutto il mondo.

Nel 1706 una singola pianta fu portata da Giava ad Amsterdam e poi, nel 1714, venne donata ai vari orti botanici europei, da dove si trasferì successivamente nelle Americhe. Questo è stato chiamato gruppo “Typica”[20]. Nel 1715 la Compagnia francese delle Indie orientali stabilì il caffè dello Yemen (il “Mokha”) sull’isola di Riunione (isola), dove ha cominciato a crescere considerevolmente a partire dal 1724 o 1726. È la varietà chiamata “Bourbon Coffee”, che a sua volta maniene una sua quota in America, anche se in un misura ridotta.

In secondo luogo i coltivatori di queste 2 varietà selezionarono semplicemente i mutanti spontanei in quanto i loro incroci non consentivano nuovi genotipi sufficienti data la bassa diversità genetica: di conseguenza il caffè è rimasto “puro” per oltre 3 secoli. Derivato dal “Boubon” è il “Marogogype” dai grani grossi avvistato in Brasile oppure la varietà denominata “Caturra”, con un’alta produttività e facilità di raccolta.

Provengono invece dalla “Typica” la “Kent” dell’India e la “Blue Mountain” della Giamaica; quest’ultimo ha permesso i primi successi d’intensificazione della coltura, in special modo nell’America Latina. Tra i vari ibridi “Typica-Bourbon” c’è la varietà “Mondo Nuovo” brasiliana. Inoltre l’ibridazione tra la “canephora” e una delle 2 arabiche, chiamata “Arabusta”, risulta essere molto raro in natura: si chiamano barriere cromosomiche.

Più tardi gli esperti di botanica impareranno a creare artificialmente per raddoppio cromosomico della canephora attraverso il trattamento di Colchicina. Nel frattempo il primo passo è stato la scoperta nel 1917 nell’arcipelago di Timor di una popolazione di arabusta selvatica detta Hdt e assai resistente alla “ruggine del caffè” la quale aveva devastato le piantagioni asiatiche negli anni 1870.

Questa prima fonte genetica differente sia da Typica che da Bourbon ha permesso d’incrociare l’arabica e creare varietà come la “Catimor” brasiliana o la “Ruiru” del Kenya[20]. La sua scoperta ha fatto crescere la fiducia e la ricerca sul caffè selvatico, condotta nei primi decenni del XX secolo lungo il bacino del Congo e che ha condotto alla produzione della “robusta” negli anni 1930. Quest’ultima peserà al 38,6% nella produzione mondiale di caffè al principio del XXI secolo.

Il suo contenuto di caffeina, che dipende molto più dal genotipo che dai fattori ambientali, è di circa il 2,5% rispetto all’1,5% presente nell’arabica e risulta più resistente alle malattie grazie a una base genetica più diversificata[21]. Gli esperti di agronomia la considerarono essenziale per ringiovanire e differenziare le vecchie varietà di arabica[20]. Tra il 1960 e il 1990, sotto gli auspici della FAO, decisero di tornare alle fonti delle popolazioni selvatiche dell’Etiopia per la creazione di ulteriori varietà migliorate.